Google? Così torniamo bambini nel grande asilo Montessori
Io adoro Google. Mi dà una sensazione di libertà. Come quando ti metti in macchina senza una meta.
Mi piace fare ricerche. Digitare le parole più stupide. O più semplici.
Riesco a imparare tantissime cose. A scoprirne altrettante.
Perché non sai mai dove ti porterà il misterioso algoritmo.
Anche quando sbagli, puoi sempre apprendere dai tuoi errori. Correggere il tiro per ottenere con più precisione quello che stai cercando.
E’ un metodo anarchico rispetto ai libri o ai professori.
Ed è appunto un viaggio, una esplorazione continua.
Ecco, osservando mio figlio credo di aver capito perché siamo (quasi) tutti Google dipendenti.
SIAMO TUTTI BAMBINI SU GOOGLE
Come imparano i bambini? Anzi, come vogliono imparare?
Provando, toccando, sbagliando, girovagando.
Soprattutto, scoprendo.
In libertà.
In libertà in un posto dove tutto sia a portata di manina.
Sono i principi di Maria Montessori.
Torniamo a Google.
Ci piace perché sembra un parco giochi, una cuccagna, più che un motore di ricerca.
E non ci sono solo informazioni: per quelle basterebbe l’enciclopedia. Ma nessuno è mai diventato (che io sappia) Treccani dipendente.
Google è un’altra cosa.
E’ il nostro asilo.
Il nostro asilo montessoriano.
La chiave libera e democratica di accesso alla conoscenza.
E i tablet, gli smartphone – in generale tutta la tecnologia ‘touch’ – sono le nostre mani sul mondo. Il tatto come modo di comunicazione, come strumento dell’intelligenza.
Insomma, più va avanti la tecnologia, più ritorniamo bambini.
O meglio: la tecnologia è riuscita a ritrovare i bambini che sono in noi.
A liberare il nostro istinto primordiale di connessione col mondo.
Guardate un bambino piccolo che gioca con un tablet.
O con un cellulare.
Si muove come se fosse venuto alla luce con queste diavolerie in mano.
Mio figlio ha 3 anni. Apre e chiude finestre, scorre col dito, sceglie video o foto, ‘salta annuncio’ su You Tube, gioca con le app. E si incavola quando prova a fare le stesse cose sul televisore e quello – arcaico – rimane totalmente inerte.
E’ vero, ha impugnato uno smartphone prima ancora di pronunciare il primo balbettìo. Ma è vero anche il contrario: la rivoluzione digitale è praticamente una nuova infanzia dell’uomo.
I MONTESSORI KIDS
Così non stupisce leggere (su Google, ovvio!) che Jeffrey Bezos, il fondatore di Amazon, Jimmy Wales, il creatore di Wikipedia, e gli stessi Larry Page e Sergey Brin, i ‘padri’ di Google, abbiano tutti frequentato scuole montessoriane in America.
Traendone insegnamenti e stili di vita destinati a segnare profondamente il loro modo di fare impresa.
Page e Brin, ad esempio, racconta La Stampa, si ‘riconobbero’ subito alla Stanford University. Stessa idiosincrasia per l’autorità costituita, stessa allergia per le regole vuote e convenzionali, stessa montessoriana passione per la scoperta.
Il primo aveva frequentato la Montessori Radmoor School di Okemon, in Michigan. Il secondo si era formato alla Paint Branch Montessori School di Adelphi, in Maryland.
Marissa Mayer, prima donna ingegnere assunta da Google ed ex ceo di Yahoo!, ricorda ancora quando scandalizzarono il principe Filippo, a St. James Palace, per aver bevuto lo sciroppo alla frutta che guarniva il soufflè.
E quando lei fece notare la caduta di stile, la risposta fu: “e chi lo dice? Noi siamo ragazzi Montessori. Siamo stati addestrati a mettere in discussione l’autorità”.
“Credo che una buona parte del nostro successo sia dovuto all’educazione che abbiamo ricevuto. Non dover seguire regole o schemi, potersi autogestire, mettere in discussione ciò che accade nel mondo e fare le cose in modo un po’ diverso rispetto agli altri”, ha spiegato Page in un’intervista del 2004 all’Abc.
Anche Jeff Bezos parla spesso della sua formazione montessoriana. E chi lavora con lui ad Amazon spiega quanto abbia fatto la differenza il suo gusto per l’esplorazione e la tendenza a deviare dal percorso battuto con un perenne “why not”. La madre racconta che, all’asilo, bisognava letteralmente sradicarlo dalla sedia per fargli cambiare attività.
Se si pensa che anche Bill Gates (Microsoft) e Mark Zuckerberg (Facebook) si sono formati col metodo della pedagogista di Chiaravalle, il cerchio si chiude. Un’elite creativa che ha fatto sospettare al Wall Street Journal l’esistenza di una vera e propria “Montessori Mafia” (l’espressione non è certo felice).
In America, del resto, le scuole montessoriane sono tante, oltre 4.500. Non come da noi dove non arrivano nemmeno a 200 . E Maria Montessori è poco più di una vecchia composta signora sulle archiviate banconote da 1.000 lire.
Ma cosa penserebbe, oggi, delle rivoluzionarie ‘creature’ dei suoi illustri allievi?
Io credo che le amerebbe, anche se racchiudono molti pericoli e perversioni.
Anche se l’educazione cosmica di cui parlava, quella solidarietà tra esseri umani nello spazio e nel tempo, oggi ha il nome degradante di globalizzazione.
Anche se internet e le nuove tecnologie hanno forse reso l’uomo più dinamico ma solitario. Più potente ma non disciplinato.
Non almeno come lo intendeva lei.
La professoressa di Ancona.
Che ai bambini insegnava un’altra disciplina: la padronanza di se stessi.