Io, crocifissa nella chat delle mamme, vi dico: cancelliamole
Alzi la mano chi non ha inveito almeno una volta – dentro di sé – contro quella tortura quotidiana che si chiama ‘chat delle mamme‘.
E’ un sistema molesto, spesso stupido e costringe a discussioni di piazza su qualsiasi argomento, dai pidocchi alla quota per il regalo alle maestre. Fino alle informazioni più personali, divenute improvvisamente motivo di confronto e interesse pubblico.
Ecco, la parola chiave è proprio ‘piazza’.
Perché la chat delle mamme ha in qualche modo le arcaiche caratteristiche della piazza.
La piazza della Santa Inquisizione. Della caccia alle streghe.
Sto esagerando? Non credo proprio.
Veniamo a quello che è successo alla sottoscritta.
Mio figlio, di soli 3 anni, ha preso due volte lo streptococco a scuola.
Se non sapete cosa sia, ve lo spiego rapidamente: è un batterio che (in una delle specie più aggressive, lo streptococco beta emolitico di gruppo A) causa tonsilliti e faringiti; se mal curato, può provocare gravi complicazioni nei bambini (artrite, danni ai reni, al cuore e altro ancora).
La prima volta Lorenzo è stato malissimo: non mangiava né beveva, parlava tipo orso Yoghi, vomitava e aveva febbre. Il pediatra non ha avuto dubbi sulla diagnosi e ci ha prescritto immediatamente l’antibiotico (10 lunghi giorni di Augmentin).
Nel frattempo la chat delle mamme ribolliva: perché l’infezione era stata contratta anche da altri bambini. Uno, addirittura, aveva anche la scarlattina (che è provocata proprio dalle tossine di un ceppo dello streptococco). Appena ho letto i messaggi, ho comunicato la situazione del mio Lorenzo e ho invitato le altre a controllare i figli con un tampone faringeo. Anche per evitare rimpalli nel contagio.
Invito raccolto da tutti, tranne forse uno o due. Il che è perfettamente legittimo. Dovrebbe essere la scuola, al limite, a preoccuparsi di un’eventuale profilassi, ove ne ravvisi la necessità. Non certo la chat delle mamme.
Arriviamo al sodo: dopo ben due settimane a casa, decido di rimandare Lorenzino a scuola. Ma con il cuore in gola. Perché il bambino si è indebolito con tanti antibiotici (ne avevamo già dovuti prendere due). E perché so bene – e ribadisco SO BENE – che le infezioni a scuola girano continuamente.
E se due settimane prima c’era lo streptococco, ci sarebbe stato anche due settimane dopo.
In più le scuole dell’infanzia hanno una particolarità: la sala accoglienza. Il luogo dove tutti i bambini vengono lasciati e presi dai genitori all’entrata e all’uscita. Un luogo, quindi, dove le classi si mischiano. Moltiplicando le possibilità di contagi incrociati.
Che cosa è successo?
Che il povero Lorenzino, in soli quattro giorni, si è ripreso lo streptococco.
Nuova notte di passione con urla, pianti, vomito e febbre. Voce da orso Yoghy e tonsille gonfie come palline da ping pong.
Ma soprattutto tanta, tanta preoccupazione.
La diagnosi l’ho fatta da sola, al volo. Non ci voleva molto. Ma ovviamente ho chiamato il pediatra che, dopo averlo visitato a casa, ci ha fatto fare il tampone faringeo.
Il risultato ha eliminato ogni residuo dubbio. Streptococco beta emolitico.
Altri 10 giorni di Agumentin (per un totale annuo, finora, di 40 giorni!!).
Il bimbo era davvero sofferente. Esausto, impaurito, provato.
E io ero fortemente depressa.
Mi sembrava che fossimo finiti in un maledetto circolo vizioso.
Ho mandato un sms alla maestra per avvisarla della recidiva di Lorenzo. Affinché, se lo ritenesse, lo comunicasse alla direzione, ai genitori o a chiunque altro.
Poi mi sono dedicata anima e corpo a mio figlio.
Ma ho commesso un errore.
Sfogarmi via Whatsapp con una mamma che ritenevo amica.
La madre di un compagnuccio di Lorenzo.
Le ho detto dello streptococco ritornato, della grande fatica, del fatto che avevo avvisato la maestra. E quando lei mi ha chiesto se non ritenevo di scrivere la “notizia” nella chat, le ho risposto (cito testuale) “non mi va, tanto alcuni so che non vogliono fare il tampone”.
Non volevo, infatti, creare altre polemiche o accusare i genitori di non aver curato bene i loro figli (infettando un’altra volta il mio).
La presenza dello streptococco a scuola, del resto, era già nota. E anche se tutti i genitori della classe stavolta avessero rifatto il tampone, sarebbe comunque rimasto il problema delle altre classi.
Ecco perché avevo pensato di avvisare la scuola.
Ma la calunnia è un venticello.
E la piazza si nutre di istinti e pettegolezzi.
Così, due giorni dopo, le mamme della chat mi tendono una trappola.
La rappresentante di classe e il marito scrivono un lungo messaggio indignato contro una mamma che non ha condiviso la notizia dello streptococco del figlio perché (cito con orrore ortografico) “NON GLI ANDAVA”.
E giù con faccine sconvolte, adirate e con i cerotti sulla bocca.
Aperto il tam tam, tutte le altre si fiondano.
“Mancanza di rispetto assoluta verso i bimbi, un peccato enorme!”
“Imbarazzante!”.
“Imbarazzante è riduttivo!”
“Non ci sono parole!”
“Chi si comporta così, lo fa per sempre!”.
Leggo i messaggi stordita.
Ci metto un po’ a capire.
Ma vuoi vedere che parlano di me?
Quella mia amica deve aver stravolto le mie parole.
Dolosamente, mi sembra.
Agitata e senza pensare troppo, scrivo che Lorenzo ha di nuovo lo streptococco.
E…apriti cielo!
Benvenuti nel sedicesimo secolo.
Nella Santa Inquisizione delle mamme inviperite.
“Sì, Cristina, la mamma della quale parliamo sei TU. Per CORRETTEZZA era meglio se lo dicevi prima”.
Io, la colpevole.
“Ma lo sapevate già che c’era lo streptococco!”, mi difendo.
“No, no, pensavamo di esserne usciti”.
Ah ecco. Pensavate di esserne usciti. E in virtù di cosa?
Niente, non mi danno ascolto. Battono e ribattono.
Faccine scandalizzate, allusioni alla mia scorrettezza.
“Cosa ti costava segnalare con un messaggio?”.
“Semplicemente per CORRETTEZZA visto che parliamo di bambini piccoli”.
“Ma proprio per questo ho avvisato la maestra!”, spiego ancora.
Non mi dilungo sul resto.
Perché le mamme non vogliono ascoltare. Né ragionare. Né darmi una possibilità.
A nessuna sfiora l’idea di chiedere come stia mia figlio.
Cercano solo un bersaglio contro cui scagliare la loro paura.
Addolorata, espongo le mie ragioni.
Poi abbandono la chat.
Chiuso, per sempre.
Mi sfogo al telefono con la dolcissima maestra.
Poi vado allo studio di mio marito.
E, con lui, in un bar, mi metto a piangere.
Tanto, tantissimo.
Sono così avvilita.
Mio figlio ammalato un’altra volta. Quel dannato circolo vizioso. E per di più, l’odio, le accuse, la follia delle altre madri contro di me.
Non immaginate quanto mi sia sentita sola.
In quel momento, ho deciso di ritirare Lorenzo dalla scuola.
A maggio avrebbe comunque dovuto cambiare istituto perché stiamo per trasferirci di quartiere.
E poi volevo tenerlo al sicuro dal rischio di nuovi contagi.
Ma la pubblica crocifissione su Whatsapp è stata la goccia che ha fatto traboccare il vaso.
Anche mio marito è rimasto segnato. E vi assicuro che non succede facilmente.
Ha voluto scrivere alla direttrice che, molto educatamente, ha espresso “disagio ed amarezza”.
“Più e più volte invito le mamme ad evitare il canale della chat, proprio perché so che prima o poi si possono scatenare situazioni simili a quella di cui sua moglie è rimasta vittima”, ci ha scritto nella risposta.
Sì, care mamme, le chat sono uno strumento pericoloso. Perverso.
L’ho provato sulla mia pelle e ancora ne serbo il segno.
Per questo non ne farò più parte.
E’ possibile, anche se pensate che non lo sia.
Basta deciderlo.
Dalla mia ‘lapidazione’, la rappresentante di classe mi ha inviato via sms le comunicazioni di servizio.
E alcune mamme, singolarmente, mi hanno tenuta aggiornata sulle notizie di interesse.
La batteria del cellulare mi dura un po’ di più.
Non sono costretta a leggere strafalcioni ortografici, messaggi concitati sulla diarrea, sulle lozioni anti-pidocchi o sui cappellini o le posatine scambiate per sbaglio.
Vivo senza alcune informazioni ma non per questo vivo peggio.
E nella nuova scuola proverò a conoscere le altre mamme con metodi più antichi ed affidabili.
Resta l’amarezza.
Di essere stata fraintesa con superficialità, tradita con cattiveria e accusata senza pudore.
Mancanza di rispetto verso i bambini.
Mi fa male solo a scriverlo.
Rimpiango i tempi della mia infanzia, quando una povera famiglia, alle prese coi malanni, veniva aiutata e non infangata.
Quando nessuno aveva l’obbligo di mettere le sue sventure in piazza.
I ragazzini venivano curati lo stesso.
E le donne, soprattutto, avevano un’anima.